Di assi nella manica, John Smith ne ha parecchi, ma non ha alcuna intenzione di usarli per ingannarci. Anzi. Come un prestigiatore anarchico intenzionato a rivelare i propri segreti, prima si diverte un po’ e poi ci spiega il trucco. Smith è infatti astuto ma non elitario, tanto un bravo socialista quanto uno degli umoristi più raffinati del cinema d’avanguardia.

Nato a Walthamstow, negli anni ‘70, Smith era un membro attivo della London Filmmakers’ Cooperative, un’organizzazione gestita da un gruppo di artisti dedicata alla settima arte e associata prevalentemente al rigore formalista del cosiddetto cinema strutturale o materialista. Oltre a queste influenze, all’artista interessavano il potenziale narrativo e il potere dell’umorismo, tanto che percorreva spesso le vie di Londra (e osservava il profilo dei palazzi) guardando il mondo con instancabile ironia. Oltre a questo, Smith cattura una “inglesità” tipica dell’East End che emerge dai pub, dai giochi di parole e dal celebre rhyiming slang, trovando aspetti poetici in tutta una serie di luoghi inaspettati, persino sull’etichetta di un flacone di detersivo per il bucato.

The Girl Chewing Gum (1976) rimane ancora oggi un classico del cinema sperimentale: come i successivi Shepherd’s Delight (1986) e The Black Tower (1987), erode in modo giocoso e sorprendente il presunto potere del regista e della voce fuori campo in prima persona. L’irriverenza di Smith nei confronti dell’autorità si estende anche alla burocrazia britannica, come è evidente in Blight (1996) e Citadel (2021), due diverse interpretazioni del genere della sinfonia urbana che traboccano non di sbigottimento, ma di protesta e di spirito comunitario. Se Smith gioca con la nostra percezione è per acuire il nostro sguardo critico collettivo: quando Om (1986) e Dad’s Stick (2012) ci chiedono di guardare una cosa con attenzione, in ultima misura il regista ci sta ricordando che quello che dice la gente potrebbe non essere sempre tutta la verità.

Lewis R. Foster

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